Titolo Percorso artistico
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[dropcap]A[/dropcap]lla fine degli anni Ottanta, dopo che Pellizza aveva compiuto un iter scolastico di tutto rispetto, la sua prima attività pittorica si esplicò nello studio dal vero, e in particolare nello studio della persona umana. Egli mostrava già fin d’allora di voler osservare la realtà senza pregiudizi, attraverso strade complementari ai convenzionali modi di rappresentazione accademica: questo atteggiamento restò sempre un aspetto nodale della sua pittura.
Gli esordi
Il punto di arrivo di questa prima fase può essere a buon diritto considerato Ricordo di un dolore, che fu eseguito a Bergamo alla scuola di Cesare Tallone e poi donato da Pellizza stesso, in ricordo di questo alunnato bergamasco, all’Accademia Carrara nel 1897, e che costituisce una delle opere più preziose della raccolta ottocentesca dell’Accademia.
Ricordo di un dolore o Ritratto di Santina Negri (1889)
La gamma cromatica impiegata in questo dipinto è formata da colori assolutamente essenziali, quali il bianco, che occupa lo sfondo e ritorna nella camicia della fanciulla, per arrivare ai fogli del quaderno tenuto aperto. Per quanto riguarda la gamma scura, essa è presente nelle sfumature bluastre della veste e in altre marroni, quasi nere, della sedia, e poi ritorna in un dettaglio fisico della giovinetta, i capelli. A cesura fra queste due parti c’è la fascia aranciata della gonna, che ha delle affinità cromatiche sia con le viole che giacciono tra i fogli che con il pavimento di fondo.
E’ proprio questo comporsi di colori chiari e colori scuri in nitide campiture che definisce la spazialità dell’immagine: notevole è infatti l’abilità prospettica dimostrata nel disegnare il seggiolone e l’intero impianto compositivo della figura, tuttavia lo spazio non è costruito solo attraverso linee convergenti nello stesso punto, ma anche attraverso la stesura di nitidi piani di colore. La tersità dei piani luminosi diventa anche volontà di costruzione geometrica, come si può vedere nel dettaglio del volto, un ovale molto ben composto, che viene però sostenuto da un’abilissima modellazione cromatica.
La costruzione dello spazio per piani di colore luminoso faceva parte della tradizione macchiaiola: a Firenze Pellizza aveva tratto profitto dal confronto con artisti del calibro di Fattori o Lega, quindi con il gruppo macchiaiolo; invece la scelta di eseguire un ritratto quasi al vero e con uno sfondo chiaro e luminoso era una prerogativa di Tallone, così come il rappresentare lo sguardo della figura rivolto dritto nell’occhio dell’osservatore, in una sorta di appello al fruitore del quadro, secondo i canoni della pittura del realismo.
Anche il tema affrontato, vale a dire la lettura o il rapporto della figura umana con un libro od un giornale, era tipico della pittura della seconda metà dell’Ottocento; in particolare il soggetto iconografico della lettrice aveva già avuto esiti altissimi in Lombardia negli anni Settanta: si pensi alla Lettrice di Faruffini, o a quella di Mosé Bianchi, per esempio.
Ma per Pellizza il quadro aveva anche una valenza più profonda: in questa rappresentazione del sentimento attonito in cui la fanciulla sprofonda nel riprendere in mano un vecchio quaderno, e quindi nel rivivere, sull’onda di qualche ricordo, un’emozione passata, Pellizza introdusse certamente una proiezione simbolica del dolore per la morte della sorella, avvenuta nel 1889.
L’adesione al divisionismo e “l’arte per l’umanità”
Come nei ritratti, così anche negli altri generi di pittura in cui ci si esercitava allora nelle accademie, cioè nei paesaggi e nella nature morte, Pellizza aveva raggiunto il massimo dei risultati che poteva conseguire, quanto a luminosità e a costruzione di una veduta convincente e aderente al vero, usando il mescolarsi del colore sulla tavolozza: si vedano ad esempio rispettivamente La piazza di Volpedo del 1888 e Le zucche del 1889./span>
Questo sistema tradizionale era basato sulla convinzione che dovesse essere il pittore a rendere il colore luminoso; le acquisizioni scientifiche ottocentesche suggerivano invece che la luminosità è un prodotto non oggettivo ma soggettivo, poiché l’occhio umano, ricevendo attraverso le sue capacità percettive i vari impulsi dalla natura, riunifica all’interno di una sorta di camera oscura le lunghezze d’onda luminose provenienti dagli oggetti e le rimescola con attivo lavoro personale. Recenti scoperte avevano infatti dimostrato che la luce non è bianca, ma composta dal miscelarsi nell’occhio dell’osservatore di più stimoli percettivi provenienti dai sette colori dell’iride.
Alcuni pittori, fra cui Pellizza, decisero di impiegare la scomposizione dei toni come strumento per operare in pittura. I ritratti del padre e della madre, che si trovano nello studio di Volpedo, evidenziano che già fra 1890 e 1891 Pellizza aveva cominciato a non servirsi più di stesure uniformi di colore, ma di pennellate più piccole, accostate l’una all’altra. In dipinti di paesaggio successivi, si può notare come Pellizza abbia ormai decisamente optato per la picchiettatura, abbia cioè ridotto la pennellata all’accostarsi di piccoli punti e di linee sottilissime, magari anche a movimento circolare; inoltre incomincia a ottenere effetti di oscurità e di ombra senza ricorrere al nero, ma usando dei colori come il rosso ed il giallo affiancati al blu di fondo, facendo in modo che si fondano nell’occhio dell’osservatore: emblematico in questo senso è Panni al sole, databile attorno al 1894.
Panni al sole (1894)
Si trattava di un lavoro che richiedeva concentrazione, competenza e sicurezza scientifica sulla tenuta del colore; questo spiega la meticolosa ricerca di materie prime adatte, fino all’adozione dei colori Lefranc, che garantivano quella stabilità e resistenza alla luce e al calore che era massimamente richiesta dai pittori divisionisti, e inoltre denunciavano sui tubetti la composizione chimica dei colori, in modo che gli artisti si potessero regolare nell’accostamento degli elementi onde evitare possibili contrasti.
Una volta in grado di padroneggiare questa tecnica, Pellizza iniziò a cimentarsi in opere più complesse, che riunificavano i già sperimentati filoni del paesaggio senza figure e della figura umana come protagonista. Si tratta delle opere che ricadono sotto l’accezione, come Pellizza stesso dichiara nei sui scritti, di “arte per l’umanità”, cioè di opere il cui scopo travalica la ripresa pura e semplice del vero: in esse l’artista, che vuole essere protagonista del suo tempo, si mette al servizio dell’uomo proponendo una riflessione su determinati valori.
In Sul fienile è rappresentato un sacerdote accompagnato da due chierici che porta il viatico ad un contadino morente. Il bracciante muore in un fienile che non è il suo perché è un lavoratore nomade, senza terra né casa, ed è stato accolto in punto di morte dalla carità di una giovane donna, la quale lo sostiene alle spalle mentre riceve il viatico. Il quadro propone dunque una riflessione sul “popolo degli umili” e sulla solidarietà, temi nodali del percorso umano e artistico di Pellizza.
Sul fienile (1893)
Questa fu la prima tela in cui Pellizza cercò di applicare meticolosamente il divisionismo, ottenendo un effetto di particolare ariosità (l’ombra, ad esempio, non è una massa inerte, statica, ma è soffice, quasi lievitante) e di tersità luminosa: una maggiore aderenza, insomma, alle condizioni reali della visione. Perciò egli proseguì su questa strada, anche se era molto impegnativa per un artista, soprattutto nel caso di grandi dipinti.
Un tema affine è ripreso in Speranze deluse, quadro sempre ambientato a Volpedo. Esso riprende un soggetto iconografico assai frequentato nel secondo Ottocento, l’età del trionfo della società borghese e della codificazione dei suoi valori entro canoni di sacralità, primi tra tutti il matrimonio e la famiglia; in questo clima si era imposto all’attenzione degli artisti il tema della fanciulla tradita, della fanciulla, e cioè abbandonata, spesso incinta, per un partito migliore. Proprio La tradita (o Prato Cassanini) era il titolo del bozzetto preparatorio.
Speranze deluse (1894)
Nella tela di Pellizza la protagonista è una contadina che piange, appoggiata al suo bastone, perché il suo promesso sposo porta all’altare un’altra ragazza, come si vede sullo sfondo, dove appare il corteo nuziale cui partecipa tutto il paese. Il tema di genere diventa nell’interpretazione di Pellizza delicatamente sentimentale, senza che peraltro si rinunci a un giudizio sociale di fondo. Nel dipingere questo soggetto, infatti, ci si sarebbe potuti abbandonare ad una rappresentazione più esasperata del dolore della ragazza o ad una contrapposizione drammaticamente più netta tra i due momenti, quello dell’infelicità e quello della festa; Pellizza sceglie invece la strada della giustapposizione non troppo ravvicinata, inserendo la scena in un ambiente naturale, in modo da non renderla né aneddotica né pettegola. La figura della tradita domina la scena, campeggiando in un vasto paesaggio che in qualche modo rende gigantesco ed universale il suo dolore. L’esempio de L’Ave Maria a trasbordo di Segantini ci documenta come il tema della vita dei campi e l’interesse per il sottile sentimentalismo, che i personaggi immersi in paesaggi naturali ed i loro stati d’animo ispiravano, fossero già diffusi nella pittura lombarda attorno agli anni 1885-86.
La composizione della contadinella con le sue pecore (una rivolta altrove e indifferente, l’altra che sembra partecipare al dolore della ragazza) e con la gerla appoggiata a terra costituisce una sorta di impianto piramidale, secondo una tradizione compositiva risalente al Rinascimento.
Nessuna parte del dipinto è resa con pennellate distese e inerti, ma ovunque troviamo una sequenza ricchissima di rossi, di blu, di gialli, che, a seconda della quantità, concorrono a produrre valori luminosi differenti. I colori, inoltre, non sono distribuiti soltanto attraverso piccoli punti accostati gli uni agli altri, ma tramite un accumulo di tratti che crea anche un certo spessore sulla tela.
Tuttavia il trionfo della tecnica divisionista fu raggiunto con Processione, del 1894-’95, che denota una grande maturità di esecuzione.
Nel passaggio da Speranze deluse a Processione emerge anche l’accentuazione di una valenza spiritualista, che si sostanzia in una resa più sottile delle figure, in base alla volontà di trasporre nei fatti costruttivi e compositivi anche significati spirituali.
Le rappresentazioni simboliste
In seguito Pellizza dimostrò più ampiamente come attraverso la rappresentazione della natura e l’aderenza al vero si possano illustrare valori universali.
Nel 1894 egli aveva soggiornato per motivi di studio a Firenze, dove aveva seguito all’Istituto Superiore lezioni di estetica, logica, filosofia, storia e letteratura. Aveva letto molto Dante, e in qualche misura aveva partecipato a quel recupero di temi letterari quattrocenteschi che si accomb295eaf24f1710e755f67b29ebf9b86ala fortuna dei Preraffaelliti. Fu proprio un verso di Dante (“E ciò che l’una fa e l’altre fanno”, Purgatorio, canto III, 82) a suggerirgli l’idea de Lo specchio della vita.
Lo specchio della vita – (E ciò che l’una fa e l’altre fanno) (1898)
Questo quadro rappresenta una fila di pecore in cui una segue l’altra in un andare fatale: ci troviamo con tutta evidenza davanti ad una vera e propria allegoria della vita, dove l’umanità procede in massa, senza porsi troppe domande, in una marcia senza inizio e senza fine. Anche il paesaggio in cui questo incedere di pecore è immerso si fa emblematico, entrando in piena consonanza compositiva con gli animali ed esaltandone il valore simbolico.
La fila di pecore non è in realtà una fila regolare e omogenea, bensì un comporsi dei diversi animali a intervalli diversi e ben individuati anche da iridescenze sul profilo della parte superiore, che rendono la vibrazione della luce attorno alle forme. L’effetto di allineamento è comunque ribadito dall’orizzontalità dell’argine, verso cui convergono le linee diagonali date dalle chiazze paludose lasciate dal Curone, a loro volta richiamate dalla morbida linea di colline ondulate sullo sfondo; anche le nuvole riprendono in un certo senso questo allineamento ondulato. La tela rivela inoltre la straordinaria invenzione di aprirsi entro una cornice dipinta come se fosse di legno e costituita da una barra marrone con striature molto sottili di rosso e di blu, che rendono più dinamica la costruzione e finiscono per diventare uno strumento raffinatissimo di riaffermazione della linea ondulata come elemento essenziale della composizione.
Il quadro riproduce sicuramente un tratto della val Curone, ma i dati reali sono ricomposti in modo tale da costituire un nesso di valenze che trascendono l’aspetto materiale.
In questa stessa ottica si collocano altri quadri che costituiscono rappresentazioni simboliche dell’esistenza, come Idillio primaverile, iniziato nel 1896 e portato a termine nel 1901, in cui ancora una volta Pellizza trae ispirazione dal vero, ma si accosta con estrema delicatezza ai temi dell’origine della vita e dell’ingenuità della fanciullezza.
Idillio primaverile (1896-1901)
Anche il pentittico L’amore nella vita, dei primi del ‘900, può essere letto come allusivo a qualche significato altro.
Il Quarto Stato
Così ne Il Quarto Stato, iniziato nel 1898 e terminato nel 1901, è evidente che Pellizza non intendeva rappresentare esclusivamente una scena, sia pure molto importante, della vita sociale del proprio tempo, vale a dire un momento di sciopero e di protesta. Vi compaiono, infatti, delle figure che avanzano verso la piena luce, mentre sullo sfondo campeggia un tramonto: è chiara l’allegoria sociale del popolo che avanza verso un futuro radioso, lasciandosi alle spalle l’età dell’oppressione. Il tema era già stato trattato più volte e continuamente rielaborato da Pellizza, a partire dal 1891, con Ambasciatori della fame, attraverso Fiumana, completata nel 1896, e il bozzetto preparatorio del 1898, Il cammino dei lavoratori, secondo il titolo inizialmente prescelto, ed era andato ampliandosi ed approfondendosi durante questo percorso, di pari passo con l’evoluzione artistica del soggetto.
Il Quarto Stato (1901)
La ricerca formale presente nella tela è di altissima qualità: la composizione è perfettamente calibrata e conchiusa e la massa avanzante non è inerte, ma il gestire delle mani, dei piedi e il gioco delle ombre movimentano la sua rappresentazione producendo un’ondulazione che si riallaccia ai moduli espressivi presenti ne Lo specchio della vita. Le linee rette ed ondulate si equilibrano suggerendo l’avanzare lento, calmo e pacato ma ineluttabile di una nuova classe, forte della sicurezza che le deriva dalla consapevolezza del proprio ruolo storico.
La tecnica divisionista con cui la tela è condotta ha raggiunto effetti di estrema sapienza, perfettamente rispondente agli scopi del pittore: nei personaggi è presente quella “atmosfericità” o assoluta mancanza di inerzia della materia che già abbiamo visto, soprattutto in Sul fienile e che possiamo ammirare, ad esempio, anche in Membra stanche o Famiglia di emigranti.
Non è un caso, inoltre, che in quest’opera, un affresco di storia contemporanea, si affacci una serie di suggestioni provenienti dalla tradizione pittorica: ad esempio, la figura dell’uomo con il bambino riprende il tema di Tobia e l’angelo della pittura rinascimentale e l’uomo che regge la cesta si ispira alla Stanza di Eliodoro di Raffaello. Anche la forza e l’eloquenza dei gesti degli altri personaggi rimanda direttamente a Raffaello: la gestualità accentuata, soprattutto delle mani, che Pellizza aveva studiato a fondo fin dagli anni giovanili, si ritrova infatti nelle opere di Raffaello che si collocano tra il 1515 e il 1520 come strumento raffinato di retorica per influsso dell’oratoria, che a sua volta aveva recuperato suggerimenti dall’oratoria antica.
Le ultime opere
Pellizza aveva sostenuto fin dagli anni giovanili che la natura può suggerire determinati stati d’animo: egli riteneva che soprattutto di sera o di mattina ci si potesse lasciar prendere dalla suggestione derivante dalla contemplazione della natura, suggestione che, lungi dal porsi come pura situazione emotiva, si rivela capace di creare un’unità fra uomo e natura, consentendo all’uomo la conoscenza di valori universali. Alcuni dei suoi paesaggi esemplificano proprio questo tipo di lettura.
Ne Il sole, che risale al 1904, c’è addirittura una sorta di esplosione dell’atto naturale, che quasi stende un velo sulla natura circostante, e si dispiega con tutta la magnificenza della visione universale della luce che si rigenera sotto i nostri occhi.
Il sole o Il sole nascente (1904)
Da un nucleo centrale di luce bianca si diparte una fitta trama di tacchette e lineette progressive, che vanno dal giallo al blu, comprendendo tutta la gamma dei colori dell’iride, al fine di rendere la dimensione dell’esplosione luminosa. Ciò comportava un rigidissimo controllo della pennellata, ma anche la composizione nel suo insieme è attentamente studiata, sia nella scelta della posizione dell’orizzonte, quasi in rapporto di sezione aurea con le dimensioni totali del quadro, sia in quella di mettere in sordina qualsiasi elemento della natura, sia in quella di movimentare la linea di fondo tramite piccolissime figure.
Su questa scia Pellizza, tra il 1905 e il 1906, studia la capacità di comunicare dei sentimenti che i singoli colori hanno nelle diverse stagioni o nei diversi momenti della giornata.
Lo si vede ne La montà di Bogino, uno dei paesaggi più interessanti della produzione pellizziana dopo il Novecento, dove si nota una grande esplosione di tersità luminosa nel blu del cielo che si riflette nel giallo dominante in alcuni tratti del pendio, e lo si osserva anche in Aprile nei prati di Volpedo, che riprende alcuni motivi già presenti nella serie dei quadri ambientati sul greto del Curone, come ad esempio le pozze d’acqua che riflettono le nubi. C’è una sorta di circolarità tra cielo e terra, cioè tra il luogo in cui si genera lo spettacolo della luce e il luogo in cui la luce stessa si riverbera, circolarità che si fa allegoria del continuo ritornare della luce, e quindi della vita, sulla terra.
Questi paesaggi trascendono dunque la loro funzione descrittiva e si presentano come complesse riflessioni sui grandi valori e sui misteri della vita: la maternità, il lavoro, l’amore, la morte, tutti temi su cui Pellizza lavora incessantemente tra il 1902 e il 1907, anno della sua morte.
[Testo liberamente tratto da A. SCOTTI, Giuseppe Pellizza da Volpedo: il percorso artistico. Testo della conferenza tenuta a Volpedo il16 febbraio 1996, Volpedo, Associazione “Pellizza da Volpedo”, 1996 e da A. SCOTTI, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale, Milano, Electa, 1986]
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