Gianmaria Testa venne a Volpedo lo scorso anno, d’estate.
Si presentò da solo, senza preavviso e in modo schivo, com’era nel suo modo di essere, riservato e gentile.
Raccontò che stava preparando la riedizione del suo disco Da questa parte del mare (Premio Tenco 2007), che sarebbe stato accompagnato anche dall’uscita di un volume, per Einaudi, con lo stesso titolo.
Ciò che lo aveva spinto a venire nel paese del Quarto Stato era stata in particolare una delle canzoni dell’album, Seminatori di grano. Quando l’aveva scritta, disse, pensava proprio ai personaggi dell’epopea pellizziana: li vedeva avanzare sulla scena e compiere il rito atavico del gettare il seme, e replicò quel gesto con l’ampio e lento allargarsi del braccio proprio qui, sulla piazza del Quarto Stato.
Si ripromise di tornare, magari per un concerto, una cosa piccola, disse, tra amici.
Ora che questo non è più possibile, perché Gianmaria Testa è scomparso nello scorso mese di marzo, restano le sue canzoni, il ricordo di una bella persona e il libro, uscito il 19 aprile 2016, in cui ha voluto rievocare anche quella visita.
Ho incontrato e riconosciuto nel passo e negli occhi di certi anziani contadini quel piglio da seminatori di grano e l’ho ritrovato anche nei personaggi di uno dei quadri simbolo del Novecento italiano, Il quarto stato di Pellizza da Volpedo.
Tutti conoscono quelle figure, i due uomini e la donna con il figlio in braccio che avanzano in testa a un corteo di braccianti, tutti hanno visto in quegli occhi la determinazione e la fierezza di chi sa di avere delle ragioni da difendere e sta andando a farle valere. Anch’io naturalmente, ma più di ogni altra cosa mi ha sempre colpito il passo, quell’incedere che a me sembrava da seminatori di grano.
A Volpedo, nel luogo dove Giuseppe Pellizza ha dipinto il suo quadro, hanno messo delle grandi pietre piatte in mezzo ai sassi tondi dell’acciottolato, segno indelebile delle posizioni nelle quali si trovavano i modelli che il pittore aveva ritratto. Di alcuni di loro, grazie agli appunti di Pellizza, si conoscono nomi e cognomi, la donna era sua moglie Teresa, l’uomo al centro si chiamava Giovanni Zarri e faceva il muratore, l’uomo a sinistra, Clemente Bidone, era un reduce della Terza guerra d’indipendenza. I modelli, regolarmente pagati dal pittore, posarono per molti giorni sotto il sole nell’estate del 1898 in piazza Malaspina, scelta non a caso in quanto sede di un palazzo padronale verso il quale il corteo idealmente si dirigeva a rivendicare giustizia.
Ma tutto questo l’ho scoperto dopo, anche grazie all’ausilio di un gentile e appassionato volontario del Museo Giuseppe Pellizza. Quel quadro invece mi accompagna da sempre, da quando lo vidi per la prima volta riprodotto in un libro di testo alle medie. E sempre ci ho trovato qualcosa di familiare, addirittura un sentimento di déjà-vu, come mi è capitato soltanto leggendo certi romanzi di Fenoglio.
In questi ultimi anni, però, alla sensazione di familiarità se n’è aggiunta un’altra. Il quarto stato è diventato per me un termine di paragone fra quella moltitudine in cammino e altre moltitudini contemporanee, anch’esse in cammino, ma senza quel passo e quello sguardo, perché a muoverle non è una volontà di giustizia, a muoverle è la disperazione di chi non ha più niente da perdere, la più forte delle energie.