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Discussione in canonica
o Dice la verità?
(1888)
olio su tela, cm 71,5×95
collezione privata
(La cera, lo stoppino, la fiamma non formano forse una cosa sola?)
Discussione in canonica, esposto a Brera nel 1888 e subito dopo alla Promotrice di Firenze, non passò inosservato alla critica più avvertita, come documenta l’apprezzamento formulato da Telemaco Signorini, attento commentatore artistico oltre che pittore macchiaiolo di fama internazionale. La tela si pone come uno degli esiti più importanti del pittore di Volpedo nel momento in cui, sottoponendo a verifica le categorie accademiche dei generi pittorici, si impegnò a risolvere un soggetto di cronaca con un efficace realismo, capace di dare universalità di significato anche a un episodio apparentemente quotidiano, condensando in esso sapienza di invenzione iconografica, impegno culturale e sperimentazione cromatica, ben documentati dalla cura con cui il pittore studiò il soggetto e si impegnò a perfezionare l’opera dopo l’esposizione a Milano e prima dell’esposizione fiorentina, secondo un costume poi adottato quasi con sistematicità nelle opere successive.
La scena rappresenta quattro figure che, attorno a un tavolo e illuminate da una luce artificiale, ascoltano le argomentazioni di un prete: giustamente la critica del tempo sentì il bisogno di citare le fonti dì un simile interno, ritrovandole nello studio di caratteri e nel realismo della pittura fiamminga, ma l’operazione di Pellizza era più complessa che non una semplice descrizione di ambiente, perché dimostrava di saper reinventare una iconografia assai diffusa nella pittura secentesca, quella della cena in Emmaus, trasposta e cambiata di significato (adombrato nel titolo Dice la verità? con cui il pittore chiamò la sua opera) ma ben individuabile nel gioco di luci e nello studio dell’articolazione dei personaggi, documentando di essere in grado di manipolare le fonti con quella sicurezza che utilizzò poi anche nelle grandi tele successive. L’allusione all’ambiguo gioco del curato si inseriva perfettamente nella cultura laica e democratica risorgimentale a cui il pittore e la famiglia erano legati. Ma la vera qualità dell’opera sta nel sicuro ed efficacissimo studio di forme e di colori, nell’orchestrazione armonica delle diverse cromie dal marrone al blu al nero dei copricapo (i cappelli un po’ appuntiti studiati anche in disegni di una pregnanza vicina a quella di Van Gogh), di abiti e mantelli (dall’impianto ampio e riassuntivo come in Millet), che definiscono con solidità i volumi e lo spazio, e individuano perfettamente, anche nel caso di presa di spalle, i caratteri di tutti i partecipanti alla discussione, apparentemente dominata dall’espressione furba del curato e dall’esasperato individualismo del giovane che gli siede accanto. Ma l’insieme della composizione trova il proprio cardine pittorico nel colpo di luce colorata che colpisce il tavolo e che risulta lo strumento per far brillare e dare autonomia ed esaltare anche per contrasto le altre tonalità.
È probabile che proprio in queste ricerche cromatiche vadano individuati i nodi dell’intervento pellizziano sull’opera prima di inviarla a Firenze: il pittore aveva ormai intuito – e lo annunciava esplicitamente in quest’opera – che la luce colorata era lo strumento innovativo della sua pittura, capace di trasformare quella che era inizialmente la descrizione degli oggetti e lo studio dei particolari in capolavoro, per l’armonia compositiva in cui si fondono spazio, forme, colori e significati.
[Testo di Aurora Scotti, tratto da Un capolavoro ritrovato, pieghevole illustrativo della mostra, Volpedo 30 agosto – 19 ottobre 2003]
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